Overthinking – Quando pensare troppo fa male

Overthinking – Quando pensare troppo fa male

Siamo esseri pensanti, non c’è ombra di dubbio. Il pensiero è l’attività mentale che ci consente di elaborare le informazioni provenienti dal mondo esterno e di metterle in relazione tra loro e con le conoscenze che già possediamo, affinché possiamo risolvere problemi, avere nuove informazioni, prendere decisioni e adattarci ai cambiamenti. Attraverso il pensiero possiamo organizzare i dati della nostra esperienza in categorie, possiamo astrarre concetti dalle singole informazioni ed utilizzarli per darci, direttamente o indirettamente, delle spiegazioni su ciò che ci accade; possiamo comunicare con gli altri e costruire un sistema di significati condivisi sul mondo in cui viviamo.  La nostra capacità di pensiero quindi è fondamentale per le nostre vite, ma in alcune circostanze può rappresentare un processo che può causarci ansia e malessere.

È il caso dell’overthinking, che letteralmente significa pensare troppo. Susan Nolen-Hoeksema, ricercatrice dell’università di Yale, ha dedicato la sua intensa attività di ricerca all’overthinking e alla relazione tra stile di pensiero ruminativo (di chi tende a rimuginare e a restare incastrato in un vortice di pensieri senza fine) e depressione (Nolen-Hoeksema, 2004).

La ruminazione, secondo la ricercatrice, è la tendenza a rispondere a un disagio, focalizzandosi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi, senza intraprendere nessuna azione concreta per risolvere la situazione.

Pensare tanto (e male) quindi, genera disagio, ansia e depressione.

 

Pensieri intenzionali e non intenzionali

Cerchiamo di capire come funziona il pensiero. Anche se la psicologia e le neuroscienze sono ben lontane dal fornirci dati precisi, a livello orientativo si può stimare che un individuo possa avere circa 4000 attività cognitive (pensieri) al giorno della durata media di 5 secondi (Klinnger e coll. 1988 e Rachman 1978). Questi pensieri possono essere intenzionali e non intenzionali. Quelli intenzionali rappresentano tutte quelle attività direzionate al raggiungimento di uno scopo, come ad esempio “Sono le 8 e 30, devo andare a lavorare”, mentre quelli non intenzionali o involontari sono attività cognitive come distrazioni, preoccupazioni, sogni ad occhi aperti, ruminazioni, ascolto del corpo, pensieri ossessivi e intrusivi.

La maggior parte del nostro flusso mentale è automatico o involontario e circa il 30% del totale di questi pensieri è ritenuto fastidioso. Siamo in grado di mantenere l’attenzione su ciò che riteniamo degno di nota, ma non possiamo impedire alla nostra mente di pensare a cose sgradevoli.

 

Rimuginare sui problemi

A tutti sarà capitato di pensare con insistenza a qualcosa che ci da problemi. Spesso l’ansia, l’insicurezza, la preoccupazione portano le persone a soffermarsi eccessivamente sui pensieri disturbanti, facendo in mondo che la mente ritorni in modo costante su avvenimenti e ragionamenti senza però cambiare punto di vista.

Chi rumina tende a “rimasticare” mentalmente episodi del passato, a rianalizzarli, a chiedersi perché le cose sono andate in un certo modo e come avrebbe potuto farle andare diversamente, a porsi domande rispetto all’adeguatezza di ciò che ha fatto, e così via.

Quando invece il contenuto dei pensieri è rivolto verso il futuro, o su qualcosa che non è ancora accaduto e potrebbe accadere, si sviluppa la tendenza a preoccuparsi cronicamente, ad anticipare mentalmente tutti i possibili scenari negativi e a riflettere su come eventualmente poterli affrontare. Questo atteggiamento ha una caratterizzazione fortemente ansiosa e porta la persona a stare molto male.

Più si pensa al problema meno questo appare risolvibile. Il risultato di stare ancorati ad un pensiero per troppo tempo è solo quello di amplificare ansia, stress e angoscia. Il rischio di eccedere in un pensiero spiacevole in modo ricorsivo è che questo diventi un’ossessione, ossia un contenuto mentale che si presenta alla mente contro la propria volontà, ripetutamente e generando profondo disagio e sofferenza.

 

Il bisogno di controllo: dal logico all’illogico

Come può un pensiero diventare dannoso? Nei nostri ragionamenti ci affidiamo alla logica e alla razionalità. Nella vita quotidiana, pensare e ripensare alle cose, in particolare ad un problema che dobbiamo affrontare, alle scelte da compiere, alle relazioni che instauriamo è qualcosa di estremamente frequente e che tutti mettiamo in atto. Per nostra natura, tentiamo di analizzare ciò che ci succede per cercare strategie e giungere ad una soluzione. Cogito ergo sum (penso dunque sono), sosteneva Cartesio. L’uomo moderno ha sviluppato, attraverso il pensiero e la sua capacità critica di analisi, l’illusione di poter controllare e gestire ogni cosa. Ma vien da sé che, per quanto le nostre capacità intellettive, scientifiche e tecnologiche siano raffinate ed evolute, questa prospettiva di controllo decade e diventa solo uno strumento per affrontare al meglio delle nostre insicurezze e timori. Eppure, quando questo processo viene eccessivamente razionalizzato, si trasforma da risorsa in limite. Ci sono infatti situazioni come le paure irrazionali, i dubbi, le relazioni affettive controverse, in cui la logica decade divenendo una trappola che ci incastra.

Si possono verificare diversi casi.

  • Cercare una soluzione (concatenazioni impossibili): i nostri pensieri ricorrenti spesso si focalizzano sul tentativo di trovare una soluzione ad una situazione che ci crea disagio. Analizziamo il problema da infiniti punti di vista e ci spostiamo da un pensiero all’altro col rischio di perdere di vista le azioni più semplici che possono guidarci verso la soluzione. Mentre utilizziamo molte energie pensando a come agire, tuttavia non agiamo e il problema si ingigantisce sotto il peso dei nostri pensieri.
  • Cercare risposte a quesiti irrisolvibili: quando ci accade qualcosa fuori dal nostro controllo, proviamo ad abbassare il disagio emotivo che questo ci ha creato, mettendo in atto un iper-analisi dettagliatissima di ogni angolatura della situazione. Prendiamo il caso che la persona per cui abbiamo una cotta abbia visualizzato e non risposto ad un nostro messaggio su Whatsapp. Inizieremo a chiederci il perché di questo comportamento, e poi passeremo in rassegna ogni possibile scenario che ha portato quella persona a non rispondere, compresi quelli più assurdi e improbabili. Ovviamente la persona che non ha risposto è l’unica in possesso della risposta, ma affannarsi in lunghe disquisizioni mentali ci fa credere di poter controllare meglio ciò che sta accadendo, ossia ci aiuta a gestire il disagio per la mancata risposta. Eppure, se da un lato questa operazione è finalizzata ad abbassare l’ansia di non avere il controllo, dall’altro la esalta in modo esponenziale perché attiviamo emozioni spiacevoli e un grande senso di impotenza.
  • Cancellare un pensiero: potrebbe accadere anche l’inverso delle operazioni precedenti. Potremmo trovarci nella situazione in cui un ricordo doloroso, un’immagine spiacevole o un vissuto sofferto torna prepotentemente alla nostra mente. Si crea un paradosso per il quale, più cerchiamo di non pensare, più il pensiero si intromette nella nostra testa per tormentarci.

 

La tortura del pensiero

Quindi, se pensare ci aiuta ad analizzare le situazioni affinché le nostre azioni vengano indirizzate nel modo che sentiamo migliore per noi, pensare troppo ai problemi congestiona la nostra mente nell’illusione di poter controllare meglio ciò che ci accade. Inoltre ci fa pendere di vista l’esame critico e la gestione delle nostre emozioni riguardo il contenuto di questi pensieri, rendendoci insicuri, disorientati e sofferenti.

Vi è una netta linea di confine tra una modalità di pensiero funzionale e una disfunzionale. L’attenzione va posta sui processi di pensiero e a come questi possono evolversi da corretti a scorretti, da utili ad eccessivi, da sani ad insani, da adeguati a dannosi rispetto allo scopo. In altre parole si tratta di rendersi consapevoli di come la nostra capacità di ragionare e di risolvere i dubbi può correre il rischio di sollevare problemi ancora più complessi.

In generale cerchiamo sempre di agire prendendo la decisione nel modo più “giusto”. L’analisi per giungere al processo “più corretto” si trasforma in una trappola che spinge la persona a iper-razionalizzare il ragionamento fino all’incapacità di uscire da questa spirale di dubbi e domande.

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